Il potenziale della meditazione come educazione dello spirito oltre le religioni
L’argomento
di questo capitolo si inserisce nel tema più ampio per cui, così
come a livello individuale coesistono vita e patologia, nella
dimensione collettiva accade che al contempo evolviamo e veniamo
travolti da una patologia globale che è come un cancro della
comunità e della storia. Inoltre fa riferimento alla questione del
potenziale apporto della meditazione a una futura educazione, dalla
cui impostazione — posto che dietro le molteplici manifestazioni
dei problemi del mondo vi è la dimenticanza della coscienza —
dipende l’importanza di affrontare il cambiamento sociale per mezzo
di una riforma dell’educazione.
Un
aspetto della meditazione è la quiete, il sospendere il flusso del
pensiero. Siamo sempre in movimento, stiamo sempre facendo
qualcosa, e non ci rendiamo conto della nostra coazione a fare, la
cui forma sottile è una compulsione a generare pensieri e una
costrizione a voler colmare il vuoto del nostro essere con qualcosa
del nostro passato o del nostro futuro: la prossima mossa, la
prossima cosa, il prossimo progetto, la prossima conquista.
Già
alcuni secoli addietro, Pascal diceva che il problema del mondo è
che gli individui non riescono a starsene tranquilli nelle loro
abitazioni, e credo che a tal proposito avesse ragione più di quanto
si pensi di solito. Vi è in ogni persona una mancanza di pace e
la corrispondente incapacità di essere soddisfatti di sé e della
vita, cosa che è di profonda rilevanza per la pace nel mondo.
La
quiete è una pratica di meditazione che possiede molte forme e la
ritroviamo in molte tradizioni: nell’induismo, nel buddhismo, nel
taoismo, nel sufismo e nel cristianesimo. I Padri della Chiesa
pensavano che chi non giunge al silenzio non può accedere alla
comunione, vale a dire che non c’è incontro col divino se in primo
luogo non si riesce ad avere una mente silenziosa. Questa fu la
grande peculiarità di San Giovanni della Croce, e Santa Teresa lo
scelse come il più competente educatore dei novizi quando fondò
l’Ordine dei Carmelitani.
La
pratica della quiete, naturalmente, non coinvolge solo il corpo, ma
anche il pensiero. Però chi prova a lasciar riposare il proprio
pensiero scopre che l’ostacolo è l’agitazione emozionale, cioè
essere in cerca di qualcosa di non definito. La nostra eccessiva
agitazione affonda le sue radici nel mondo dei bisogni nevrotici o
delle passioni, che altro non sono che ciò che gli antichi
chiamavano peccati. Non può restarsene quieta, ad esempio, una
persona che ha troppa ambizione, poiché l’ambizioso è qualcuno
che sta sempre lottando per un progetto, creando qualcosa o
immaginando future possibilità, e starsene quieto lo indurrà ad
avvertire che sta perdendo tempo. Ma neanche una persona troppo
invidiosa può rimanere quieta. Tutti quei peccati conosciuti dagli
antichi hanno in comune il problema di allontanarci dalla pace della
quiete.
Perciò
possiamo considerare la pratica della quiete come una panacea: cura
tutte le nostre coercizioni automatiche, a seconda del nostro
peculiare tipo di ego (o dei diversi tipi di macchina psicologica).
Le motivazioni che dominano i vari tipi di persone sono differenti,
di modo che possiamo affermare che vi siano menti codarde, pigre,
lussuriose (che ricercano sempre l’intensità per sentirsi vive),
menti comode (che desiderano sentire che tutto è comodo e al
calduccio, poiché cercano il piacere e vogliono allontanare il
dispiacere) — e tutto questo perde qualcosa del suo potere nella
persona che intende distanziarsi dal suo pensiero.
Colui
che vive completamente avviluppato nei suoi pensieri non vede al di
là di essi e smarrisce il contatto con le proprie esperienze
psichiche. La vita ordinaria è una condizione in cui siamo
talmente assorti nei nostri ricordi, nelle nostre anticipazioni del
futuro e nei nostri commenti sulla vita stessa, che non viviamo
neanche il presente. Soprattutto, non stiamo vivendo quell’aspetto
del presente che è il semplice essere, o l’essere lì. Essere
presenti, semplicemente sentendo la nostra esistenza, ci sembra poco
interessante. Tale presenza non è molto apprezzata oggi che si dà
valore soprattutto all’informazione e a ciò che è pratico.
L’essere semplicemente non ha valore pratico, e solo coloro che
cominciano a progredire interiormente iniziano a ragionare su cosa
sia l’essere presente, o il sapersi presente.
A
volte incontro delle persone che alla domanda: “Cosa cerchi
nella vita?”, mi rispondono: “Essere qui ed ora”, e questo
mi sembra un segno di inusuale maturità. Una volta partecipai a un
forum sull’educazione e accanto avevo una persona che praticava il
buddhismo Zen. Qualcuno dal pubblico gli domandò: “Che cos’è
Dio per te?” e mi piacque la sua risposta insolita, “Io credo che
Dio sia cogliere il momento presente, che percepiamo solo vagamente e
con ritardo”. Vale a dire: Dio ci sfugge di attimo in attimo, ed è
una intuizione di ciò che sentiamo come il nostro essere profondo,
che in realtà non è nostro né di nessuno, ma semplicemente
l’Essere. Il non fuggire dal presente per mezzo del lavoro
dell’immaginazione è una porta d’accesso a questa sensazione di
esistere a cui diamo tanto poco valore a paragone dei nostri progetti
e delle nostre ambizioni, ma che a sua volta è l’inizio della
scoperta che la vita è sacra. E se non prendiamo contatto col nostro
Essere, non abbiamo contatto con l’Essere di nessuno. Tutto si
trasforma allora in pensieri, astrazioni, cose…
La
quiete, quindi, è una grande porta. Una porta che, in ultima
analisi, è un mistero, perché non lo abbiamo ancora vissuto. Ma
una porta che sembra essere come l’acqua per i pesci, che non la
percepiscono, proprio perché in essa vivono. Niente di più
familiare che “noi stessi”, il soggetto della nostra propria
coscienza, che ci è diventato invisibile a ragione della sua stessa
familiarità. Del resto, se coltiviamo questo “io sono”
innaffiandolo con attenzione come una pianticella alla quale si dà
acqua ogni giorno, si andrà trasformando non solo in una fonte di
pace, ma anche di grande benessere.
Una
pace che non è assenza di conflitti, ma qualcosa come una forza
interiore che può permanere anche in mezzo alle turbolenze dei
nostri conflitti. L’educazione alla pace mi sembra un
importante bisogno umano, ma dobbiamo comprendere che la pace nel
mondo richiede la pace interiore. E sarebbe un dono importante per
qualsiasi persona poter raggiungere una maggiore tranquillità
semplicemente nell’incontrarsi con l’immobile profondità della
propria mente, invece di perdersi nella molteplicità dei suoi
impulsi e nelle astrazioni del pensare.
Cosa
costerebbe farlo? Sarebbe necessario che vi fossero abbastanza
persone che comprendessero l’argomento, e che sorgesse qualche
iniziativa a tal proposito. Solo che è difficile prendere iniziative
nelle grandi burocrazie. Ho sempre detto che il sistema educativo mi
sembra un grande elefante bianco, fra tutte le burocrazie la più
difficile da far funzionare. E sappiamo che le grandi burocrazie
iniziano per servire a qualcosa e finiscono per servire a se stesse.
Questo è un grande problema sociologico. Tuttavia spero che un
giorno si comprenderà che la meditazione costituisce un tema
importante e trascurato dell’educazione.
Testo
tratto dal libro La rivoluzione che stavamo aspettando in vendita in
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Il
libro che rappresenta il testamento politico-sociale di Claudio
Naranjo, un testo che non lascia indifferente chi lo legge. In pagine
dense di sapere e rimandi ai più grandi pensatori mondiali, l'autore
propone un percorso per raggiungere una maggiore consapevolezza e una
massa critica tale da consentire un cambiamento nella coscienza
globale. Un libro dedicato a chi guarda con inquietudine e volontà
di cambiamento lo stato attuale del pianeta e dello sviluppo umano.
Fonte:
http://www.terranuova.it/Ricerca-interiore/Il-potenziale-della-meditazione-come-educazione-dello-spirito-oltre-le-religioni